La liturgia

I segni nella Liturgia

 

Una celebrazione sacramentale è intessuta di segni e di simboli. Secondo la pedagogia divina della salvezza, il loro significato si radica nell’opera della creazione e nella cultura umana, si precisa negli eventi materiali dell’Antica Alleanza e si rivela pienamente nella persona e nell’opera di Cristo.


Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l’uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l’uomo ha bisogno di segni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio.


Dio parla all’uomo attraverso la creazione visibile. L’universo materiale si presenta all’intelligenza dell’uomo perché vi legga le tracce del suo Creatore. La luce e la notte, il vento e il fuoco, l’acqua e la terra, l’albero e i frutti parlano di Dio, simboleggiano ad un tempo la sua grandezza e la sua vicinanza.


In quanto creature, queste realtà sensibili possono diventare il luogo in cui si manifesta l’azione di Dio che santifica gli uomini, e l’azione degli uomini che rendono a Dio il loro culto. Ugualmente avviene per i segni e i simboli della vita sociale degli uomini: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice possono esprimere la presenza santificante di Dio e la gratitudine dell’uomo verso il suo Creatore.


Le grandi religioni dell’umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La liturgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della creazione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Gesù Cristo. (dal “Catechismo della Chiesa Cattolica)

 

 

Nella liturgia i simboli servono a presentare attraverso la loro realtà materiale e tangibile una realtà invisibile consentendoci di riconoscerla, introducendoci con i nostri sensi in quel Mistero Pasquale che viene celebrato.

 

ACQUA


E' simbolo di vita, purificazione, morte e distruzione. Tutti questi significati li troviamo nella Sacra Scrittura come riferimento al sacramento del Battesimo (nuova vita, rinascita, purificazione)
Semplice, limpida, pronta a ristorare chi è assetato, a pulire ciò che è sporco.
Nello stesso tempo l'acqua richiama la profondità dei mari, insondabile e che trasmette un senso di forza, e richiama anche l'immagine della vita che da essa sgorga, veicolo della grazia divina. È l'elemento primordiale da cui ha avuto origine la vita stessa e che nel battesimo ci fa morire (affogare) e rinascere.
L'acqua viene usata per benedire, battezzare, come simbolo di nuova vita, di purificazione, noi stessi entrando in chiesa (non uscendo...) ci segniamo con il segno della Croce inumidendoci le dita e toccandoci fronte spalle cuore, come ricordo del battesimo e come gesto di purificazione, affinché l'animo nostro diventi puro grazie a quell' acqua. È il primo gesto penitenziale che compiamo, anche se lo abbiamo dimenticato, quando entriamo in chiesa.

 

PANE E VINO


Il pane è nutrimento, quello essenziale, quello dei poveri di tutti i tempi e di tutto il mondo. Si dice che il pane "è buono". Nella figura del pane Dio diventa vitale nutrimento per noi uomini. E' il pane VIVO; è il pane della Vita. ( Gv 6,34)
Il vino è bevanda, e non una semplice bevanda che spegne la sete, mira a qualcosa di più: rende lieto il cuore dell'uomo.
Senso del vino non è solo spegnere la sete, bensì di essere la bevanda della gioia.
Ed è sotto la figura del vino che Cristo elargisce il suo sangue. Non come bevanda "misurata", ma come sovrabbondanza (lo ha versato tutto) della prelibatezza divina.
Dio ci dà tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Mangiare e bere di Sé per avere la Vita con la V maiuscola.
C'è anche un altro significato nell'uso del pane e del vino nella liturgia. Essi sono al contempo frutto della terra, ovvero dono di Dio, e del lavoro dell'uomo. Non si usano ad esempio frutta e miele per le offerte che diverranno corpo e sangue di Cristo, ma pane e vino, poiché il Signore chiede all'uomo la sua collaborazione nel disegno della Salvezza. Ovvero il frumento deve essere lavorato, impastato, cotto dall'uomo, con i frutti del suo ingegno della sua inventiva (macine, forni). Così anche il vino, l'uva una volta raccolta va pestata, il mosto fatto fermentare al punto giusto. Dio chiede sempre la nostra collaborazione perché anche noi possiamo avere una parte attiva nel piano della nostra Salvezza.

 

OLIO
E' simbolo di salute, forza, benessere e pace. Tali significati ripresi dalla Sacra Scrittura rimandano alla grazia dello Spirito Santo donato nei sacramenti che scende sul battezzato, confermato, vescovo, sacerdote, infermo e sui luoghi destinati alle celebrazioni.

 

Distinguiamo tre oli:


il Crisma, l'olio dei Catecumeni e l'olio degli infermi.


Vengono benedetti (il crisma viene consacrato) in ogni cattedrale una volta all'anno il Giovedì Santo  dal vescovo durante la messa crismale. Dopo la messa crismale gli oli vengono distribuiti ad ogni parrocchia.
Subito dopo il Battesimo si unge con il crisma il capo del battezzato
Per la Confermazione si traccia una croce sulla fronte del cresimando.
All'ordinazione il crisma si usa per ungere le palme delle mani dei presbiteri e le fronti dei vescovi.
Può essere usato anche nella consacrazione di calice e patena.

L'olio dei catecumeni viene usato nei riti preparatori al Battesimo come segno di fortezza nella lotta contro il peccato. Si tracciano con quest'olio una croce sul petto e un'altra fra le scapole del catecumeno.

L'olio degli infermi è l'olio che viene utilizzato per amministrare il sacramento dell'unzione degli infermi.

 

FUOCO

Il fuoco è un elemento che consuma, brucia, purifica, distrugge, illumina, riscalda, produce energia. È simbolo pertanto della presenza della divinità, presenza invisibile ma forte e purificatrice; attorno al fuoco si raccolgono le persone e questa presenza favorisce la comunione, la riflessione, la meditazione.

 

IL CERO

In particolare parliamo del cero pasquale. Strettamente legato a quanto detto del fuoco anche il cero pasquale è simbolo della divinità e in modo particolare esso simboleggia nello specifico il Cristo risorto.
La notte di Pasqua infatti la celebrazione inizia proprio con l'accensione del cero fuori della Chiesa. Esso poi "feconda" tutta la comunità e le ridà nuova vita, tanto che tutti gli altri ceri simboli delle nostre vite come il cero pasquale è simbolo del Cristo, vengono accesi da esso.
Perché proprio il cero? Perché non solo produce luce e calore, ma si consuma. Il senso più profondo della vita sta nel consumarsi in verità e amore per Dio, come il cero in luce e fiamma.
La notte di Pasqua si fa un'altra azione con il cero: lo si immerge nel fonte battesimale per benedire l'acqua, dalla quale in seguito avranno nuova vita i battezzati. Questo gesto compiuto nella notte di Pasqua altro non è infatti che la rappresentazione simbolica dell'unione che genera: Cristo risorto feconda la sua Chiesa donandole la Vita.

 

LUCE

E' elemento vitale sia nel cosmo che per la vita dell'uomo. Per il cristiano la luce è Cristo. Il cero pasquale che viene acceso dal fuoco nella notte della veglia pasquale simboleggia la luce di Cristo che disperde le tenebre del peccato e della morte.

 

INCENSO

Il suo uso è antichissimo; veniva bruciato per emanare odore e profumare gli ambienti. Nelle liturgie l'uso dell'incenso è utilizzato per creare un ambiente solenne e festoso esprimendo rispetto e riverenza verso il Signore essendo segno dell'atteggiamento di preghiera e di adorazione verso Dio.
La nube che genera l'incenso insieme al suo odore è simbolo della presenza del divino cosi come ci dicono molti testi biblici.
L'odore dell'incenso inoltre suggerisce un percorso di santità a coloro che si lasciano portare da esso; l'odore dell'incenso (del divino) deve entrare in noi, sino al nostro cuore, per renderci santi. L'incenso usato durante la celebrazione eucaristica ci indica questa via: accogliere il Signore che bussa alla porta del nostro cuore riconoscendo la sua voce in mezzo a tante altre voci.

 

GESTI


Il Mistero Pasquale di Cristo è reso presente nella liturgia anche attraverso i gesti e le azioni che noi compiamo col nostro corpo. Il corpo, infatti, nella celebrazione, è una presenza determinante; noi parliamo con il nostro corpo e con i nostri gesti e atteggiamenti, comunichiamo i sentimenti, le sensazioni del cuore, a gioia o il dolore.

IN CHIESA
Partecipando alle celebrazioni dobbiamo esprimere col nostro corpo rispetto verso Dio che parla. Durante la celebrazione il metro di misura deve essere la verità, non bisogna fare movimenti costruiti. Nelle celebrazioni il discepolo non vive il suo rapporto con Dio privatamente ma insieme ai fratelli e le sorelle, lo vive come Chiesa; tutto ciò che compie lo deve fare insieme agli altri.
Vediamo dunque alcuni atteggiamenti da tenere in Chiesa durante le celebrazioni.

STARE IN PIEDI
E' gesto di onore e di rispetto verso Dio; manifesta la dignità dei figli di Dio che i cristiani hanno ricevuto col battesimo; significa confessare con il proprio corpo che la pasqua di Cristo ci ha salvati (i risorti stanno in piedi); è gesto di gioia con cui i figli di Dio attendono il Signore che viene.

STARE SEDUTI
E' mettersi in riposo fisico e spirituale durante la liturgia della Parola e durante la pausa di silenzio dopo la comunione per ringraziare il Signore. Due momenti caratterizzati dall'ascolto che il discepolo deve porre verso il Signore che parla. L'ascolto esige anche il silenzio che è il respiro della liturgia, lo spazio in cui risuona la Parola di Dio. È il gesto con cui ci disponiamo ad ascoltare Dio che parla e allo stesso tempo è il gesto con cui Lui ci mostra la sua accoglienza. Siamo infatti gli invitati alle nozze dell'Agnello e come tali veniamo fatti accomodare nella casa del nostro "ospite".

STARE IN GINOCCHIO
E' un gesto che richiama alla consapevolezza della propria povertà e della propria piccolezza di fronte alla grandezza e alla santità di Dio. Esprime la nostra adorazione. Legato allo stare in ginocchio abbiamo la genuflessione passando davanti al tabernacolo o davanti al SS Sacramento esposto e davanti alla croce il Venerdì Santo. (nb si fa inginocchiandosi su un solo ginocchio, il destro, senza appoggiare le mani sulle gambe...nei limiti del possibile...).

INCHINO
Davanti alla croce, all'altare, alle sante icone, al vescovo che presiede (e per traslazione al celebrante parroco in quanto rappresentante del Vescovo). Distinguiamo in inchino del capo e inchino profondo. L'inchino del capo è previsto anche quando vengono nominate insieme le tre persone della Santissima Trinità, il nome di Maria e del santo di cui si celebra la memoria.

LE MANI
Alzate: le mani sono il prolungamento della persona; esse accompagnano il nostro parlare. Le mani alzate esprimono la tensione verso l'alto; tutto l'uomo è come portato verso Dio.
Giunte: l'uomo che si pone in preghiera davanti a Dio congiunge le mani per manifestare il suo abbandono nelle sue mani e per affidarsi umilmente e interamente a lui. Le mani sono segno del nostro agire, del nostro lavorare, della nostra attività, quando le uniamo e le portiamo al cuore, ci disponiamo a cessare tutte le nostre opere ed, entrando nella stanza segreta del nostro cuore, entriamo in dialogo con Dio.
Battersi il petto: esprime il nostro sentimento di colpa, quella colpa che nasce dal peccato che ha la sua origine nel cuore. L'uomo peccatore deve rompere il cuore di pietra per ricevere da Dio un cuore nuovo, il cuore di carne.
Segno di croce: è il segno più importante del nostro essere cristiani; è il gesto con cui noi confessiamo la nostra fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. E' il gesto con cui iniziamo ogni preghiera, ogni attività. È il segno che ci collega a Cristo stesso e ci impegna per tutta la vita.

 

 

 

Capire la liturgia: la “partecipazione attiva”

Dal Concilio Vaticano II in poi, è diventata di uso comune l’espressione “partecipazione attiva” dei fedeli alla celebrazione liturgica. Questa frase, di fatto usata nella stragrande maggioranza dei casi con il significato di “l’assemblea deve cantare” e quindi per giustificare una scelta dei canti spesso discutibile, in realtà esprime un concetto estremamente più denso e soprattutto meno banale, senso che i liturgisti, a cinquant’anni dal concilio, hanno ormai ben compreso e soprattutto chiarito.

Per inquadrare il problema, ricordiamo che la liturgia è “culmine e fonte” di ogni azione di grazia (lo ricordava sempre Don Bosco ai suoi ragazzi: senza Cristo “non possiamo fare nulla”); ma poiché il nostro Dio è un Dio incarnato in Cristo, e che fa della comunione tra i fedeli la sua caratteristica principale, ecco che la frattura che di fatto si era creata tra sacerdoti e laici già nel 1700 durante lo svolgersi del rito, aveva creato non pochi malumori all’interno della Chiesa, chiedendo con forza che venisse affrontato il problema. Fu Pio XII prima del Concilio che scrisse una prima volta sulla “partecipazione dei fedeli”, ma la sua è una partecipazione diversa da quella poi sviluppatasi dalla Sacrosanctum Concilium.

Nei suoi scritti, si evince una partecipazione più intimistica, più di “contatto dell’anima con il senso della celebrazione”. Di fatto, si esclude ogni eventuale equiparazione tra chierici e laici: «il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali». Il concetto di partecipazione dei fedeli è legato non al rito, ma allo stato d’animo; tutti devono poter «riprodurre in sé, per quanto è in potere dell’uomo, lo stesso stato d’animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il Sacrificio di sé: l’umile sottomissione dello spirito, cioè, l’adorazione, l’onore, la lode e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio; […] l’abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo, il volontario e spontaneo esercizio della penitenza, il dolore e l’espiazione dei propri peccati»
Coloro che non riuscivano a entrare pienamente nel rito o per ignoranza o per incomprensione della profondità dei riti, potevano partecipare in altra maniera, per esempio meditando i misteri del Rosario o tramite altre preghiere, da cui sono nate tante forme rituali che ancora oggi faticano a essere messe da parte quando si celebra l’Eucarestia.

I Padri conciliari, qualche decennio dopo, invece coniarono l’espressione “actuosa participatio” per esprimere ciò che ciascun battezzato, in forza del sacerdozio comune, deve poter vivere nella celebrazione. E scrissero così:

«È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato” (1Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo» (SC 14). I Padri, inoltre, raccomandarono di preferire «una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli […] alla celebrazione individuale e quasi privata» (SC 27) e, nelle istruzioni offerte per la riforma dei libri e dei riti, al fine di promuovere tale partecipazione attiva esortano a curare «le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. […] anche, a tempo debito, un sacro silenzio» (SC 30).

Di fatto, si sana quella spaccatura che portava i fedeli ad assistere passivamente alla liturgia, e si arriva a far si che tutti i fedeli, «comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (SC 48).

La celebrazione ridiventa un corpo unico, diversificato solo dalla ministerialità. La liturgia riformata pone al centro del suo celebrare l’assemblea: un’assemblea tutta ministeriale, presieduta da un ministro ordinato, e servita da diaconi, accoliti, lettori, cantori. Un’assemblea che veda fiorire al suo interno vocazioni e ministeri e che, nell’azione liturgica, lasci trasparire la ritrovata immagine di Chiesa-Corpo di Cristo dove, secondo l’Apostolo, tutte le membra, ben compaginate, ciascuna secondo le proprie peculiarità, partecipano al buon funzionamento dell’intero corpo. Non limitata quindi al solo canto, bensì a ogni momento della celebrazione. Ogni attore, parte attiva, ha un suo ruolo, anche solo fosse quello delle risposte assembleari: ma tale ruolo è consapevole e soprattutto in comunione con gli altri.

Viene da sé un’annotazione: è stato “abbassato” il livello sacerdotale o è stato “innalzato” il livello dell’assemblea? La risposta, negli scritti, è semplice: la seconda opzione. E qui le nostre assemblee, purtroppo, cadono miseramente, spesso non per colpa loro. Al contrario di quello che si evidenziava all’inizio, non è più un “tutti fanno tutto”, in nome di una certa buona volontà e un certo livellamento. Non è un gioco al ribasso, ma anzi è un’esplosione di servizio.

Un lettore non è più una persona casuale, ma una persona formata, capace di proclamare la Parola alla comunità allo stesso modo in cui il sacerdote proclama il Vangelo; un cantore o un coro non sono più persone di buona volontà che cantavano sotto la doccia o in qualche teatro lirico, ma formate alla conoscenza di ciò che stanno vivendo e come tali “lodano Dio e santificano i fedeli”; un ministrante non è più un bambino da far star buono, ma un gruppo stabile che serve attivamente; l’assemblea non è più una massa di persone sconosciute, ma cristiani che si ritrovano in comunità, e quindi pregano insieme, arrivano insieme, vanno via insieme, si alzano insieme, cantano insieme le parti a loro assegnate e sono in comunione nelle altre; e così via.

La “partecipazione attiva” è frutto di una formazione costante di tutta l’assemblea celebrante, e richiede una responsabilità molto più grande che in passato; non ci si può più nascondere nell’anonimato. In questo senso, si nota subito una divisione tra chi partecipa attivamente alla vita parrocchiale, e chi viene solo a messa, magari distratto, in ritardo e senza coinvolgimenti. Quanta bellezza si perde!

La Liturgia Eucaristica è per tutti, e tutti sono chiamati, ognuno nel suo ruolo, a entrarne e a partecipare nel suo senso profondo e nei miracoli che essa produce. E’ il culmine e la fonte della vita di ogni cristiano. Riscopriamo il nostro ruolo. La strada, quella di chiedere e dare a ogni fedele maggior consapevolezza del suo ruolo in funzione del battesimo ricevuto, è tracciata, ormai: indietro non si tornerà.

 

 

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