Elia, il profeta guerriero, inseguito dai sicari della regina, alla fine si arrende: Basta, meglio morire.
Troppo cammino, troppo deserto, troppo dolore. Voglia solo di restare accucciato, sotto il cespuglio di ginestre.
Ed ecco un angelo, un profumo di pane cotto e acqua fresca di pozzo. Niente parole dure, di giudizio, di accusa, ma solo: Elia, mangia.
Dio non fa trovare al profeta stanco un cavallo che divori le distanze assolate del deserto, ma solo un po' di pane e acqua, una carezza e una parola. Il quasi niente, che però risveglia la sua forza. E il profeta cammina sulle sue gambe, e non su mani d’angeli, con le forze che non sapeva di avere, fino al monte di Dio.
La prima lettura ci introduce al tema del pane, con il vangelo passiamo dal deserto alla sinagoga di Cafarnao, seguendo tre parole centrali:
1. Io sono il pane disceso dal cielo.
In una sola frase si intrecciano tre metafore: pane, cielo, e un movimento di discesa. Il pane è tutto ciò che fa vivere. Io sono pane: io faccio vivere. Il lavoro di Dio è alimentare la vita. Il nostro, semplicemente accoglierlo. Uno diventa ciò che accoglie, uno diventa ciò che lo abita.
Cielo che discende: Dio in cammino. Scende Dio, ed entra in me come pane. Dio sotto la mia pelle, sopra la mia povertà, come un re sul trono.
Prendiamo nota di questa azione descritta da Gesù: discende per mille strade, in cento modi, discende verso di me e lo fa adesso, in questo momento, e continuamente. Mi avvolge, io sono immerso in lui. Lui immerso in me.
2. Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre.
Un Dio attraente! Finalmente: non un dito puntato, ma una forza di attrazione cosmica. Io sono cristiano per attrazione, da parte non di un Dio onnipotente, ma di un Dio che tutto abbraccia(K. Jaaspers). Dentro tutte le creature è al lavoro una forza di attrazione divina verso la bellezza e la bontà, verso quelle cose che fanno star bene.
3. Chi mangia la mia carne.
Mangiare. Verbo così semplice, quotidiano, vitale. Che indica cento cose, ma la prima è vivere di ciò che mangi. Vivere di Dio è il senso ultimo del tempo e dell’eterno. Dio dentro, che mi trasforma nel cuore, nel corpo, nell’anima.
La mia carne, dice Gesù, e non il mio corpo. La carne, cioè l’umanità originaria e fragile: “Prendete la mia umanità come misura alta del vivere”: racconti, gesti e parole, croce e pasqua.
Sta a me respirare la sua aria limpida e fresca, muovermi in quel mare d’amore che ci avvolge e ci nutre, sognare i suoi sogni.
Del tuo Spirito è piena la terra: è piena, è colma, ne trabocca;
il Pane non sta sull’altare della chiesa, ma sulla tavola di casa...dolce carne è quella di chi ti ama; dolente carne di Cristo è il povero; e tutta la gente insieme è la carne santa di Dio.