Ermes Ronchi
fonte: https://blog.smariadelcengio.it/
28 04 2024
V Domenica di Pasqua - Anno B -
"Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto."
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Vangelo secondo Giovanni 15, 1-8
La piantagione preferita
La bibbia è un libro pieno di olivi, di fichi e di viti. Pieno di uomini di cui Dio si prende cura e dai quali riceve un vino di gioia. Con le parole di oggi Gesù ci comunica Dio, cose da capogiro, attraverso lo specchio delle creature più semplici. Ci porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.
All'inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore! C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.
Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.
Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.
E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.
Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c'è niente.
Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.
Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.
Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.
Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.
Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire...
La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.
E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.
padre Ermes Ronchi
Ascolta il canto :
A te la mia lode, Signore (Salmo resp.)
Shout! Koinonia
Rimanete in me
Rinnovamento nello Spirito
Vignetta della Domenica
21 04 2024
IV Domenica di Pasqua - Anno B -
"Il buon pastore dà la propria vita per le pecore."
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Vangelo secondo Giovanni 10, 11-18
Disarmato amore
Io sono il pastore buono: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro lupi e predatori.
In che cosa consiste la sua bontà? Nell’essere pastore mite, gentile, paziente, delicato? No, per ben 5 volte il vangelo oggi lo spiega con il gesto di dare, offrire, donare, porre in gioco la propria vita.
Il lavoro di Dio è offrire vita, alimentare la vita del gregge. Un Dio pastore che non chiede, offre; che non prende niente, dona tutto; non toglie vita, dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre. Non un comando ma il comando, l’unico, l’essenziale.
Io sono il pastore bello, dice il testo originario. E noi capiamo che ‘bellezza’ è un nome di Dio; non estetica ma forza di seduzione; forza che crea ogni comunione.
«Il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore». Al pecoraio salariato Gesù oppone parole che amo e che sorreggono la mia fede: “a me, pastore vero, le pecore importano, tutte, l’una e le novantanove”. A ciascuno ripete: tu mi importi. Verbo bellissimo: importare, essere importanti per Dio!
Signore, non ti importa che moriamo? Gridano li apostoli spaventati dalla tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Non temere!
Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma tu vali di più. Mi importano i gigli del campo ma tu conti più di tutti i gigli del mondo.
Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che ti oscura il cuore.
Per te do la mia vita. E non so domandare migliore avventura.
A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l'assenza di Dio, o turbati per il suo silenzio.
Il comandamento che impariamo dal pastore bello è che la vita è dono. "Dare vita" significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.
Se non dai vita attorno a te, entri nella malattia. Se non dai amore, un’ombra invecchia il cuore.
Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. E di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino, mi metto nelle sue mani e gli affido tutti gli agnellini del mondo.
Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi, pastori tutti di un pur minimo gregge,. siamo chiamati a diventare racconto della tenerezza di Dio, della sua combattiva tenerezza.
padre Ermes Ronchi
Ascolta il canto :
La pietra scartata dai costruttori (Salmo resp.)
Shout! Koinonia
Signore buon Pastore (Atto penitenziale)
Francesco Buttazzo - Anna Maria Galliano
Gesù mio buon pastore
Rinnovamento nello Spirito
Vignetta della Domenica
14 04 2024
III Domenica di Pasqua - Anno B -
"Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno."
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Vangelo secondo Luca 24, 35-48
E' lui ma non lo è, non più come prima
Sconvolti, credevano di vedere un fantasma.
Dopo tre anni di Galilea, di olivi, di lago, di villaggi, di occhi negli occhi, lo conoscevano bene, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ma non più come prima, perché la Risurrezione non è un semplice tornare indietro, è andare avanti, è trasformazione, è pienezza che non si volta indietro.
Un fantasma non lo puoi stringere, come Gesù chiede. Toccatemi.
Ma tu da chi desideri essere toccato? Solo da chi ti vuole bene!
L’incredulità degli apostoli si arrende al più umano dei bisogni: non agli angeli, non all'amicizia o alla teofania prodigiosa, ma ad una porzione di pesce arrostito. Lo racconteranno come prova dell’incontro con il Risorto: noi abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41).
Mangiare è il segno della vita, e mangiare insieme è il segno eloquente di un legame perfetto, della comunione che tiene insieme le vite.
Quel struggente lamento – non sono un fantasma – arriva fino a me. Chi sei, Signore? Un'emozione occasionale, un gioco d'ombre sul muro della vita, un mito, pur magnifico e necessario, un rito settimanale, poco più che un fantasma?
No, Cristo è il presente e il futuro della mia carne, concreto punto nella storia che si dilata e mi coinvolge.
Non è un fantasma, è pane e vino che bastano ai giorni. Vive in me, mi chiama, si dilata dentro, piange le mie lacrime e sorride come nessuno.
Talvolta vive al posto mio e cose più grandi di me mi accadono. E si fa pace (pace a voi!) più grande di ogni mio diritto; e si fa intelligenza che io non ho conquistato (svelò loro il senso delle scritture e della vita); e si fa orizzonte e passi d'amico lungo il cammino.
Mi consola la fatica dei discepoli a credere, è la garanzia che non si tratta di un evento da loro inventato, ma di un fatto che li ha spiazzati.
Allora Gesù pronuncia, per sciogliere paure e dubbi, i verbi più semplici e familiari: “Guardate, toccate, mangiamo insieme! Non sono un fantasma”.
Mi tormenta questo lamento di Gesù, umanissimo e dichiarato: non sono un fiato nell'aria, un mantello di parole pieno di vento... E senti il suo desiderio di essere abbracciato come l’amico che torna da lontano, e tutti i tradimenti sono spazzati via dall’umile richiesta di affetto.
Vorrei oggi ripartire, come i due di Emmaus, alla ricerca della carne di Cristo sparpagliata nella carne del mondo, scoprire come tutti i nostri volti uniti fanno il suo unico volto. Vicinissima a te è la sua carne; affidata a te. Quando capiremo che Dio abbraccia attraverso i nostri abbracci?
Le tue mani possono ancora toccarlo e accarezzarlo, nei fratelli e nelle creature tutte. E far tacere il suo lamento: non sono un fantasma, io ho carne e ossa, toccatemi!
E siatemi testimoni.
padre Ermes Ronchi
Ascolta il canto :
Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto
Shout! Koinonia
Arderanno sempre i nostri cuori
Paolo Auricchio
Resta qui con noi
Gen Rosso - feat. Cheryl Porter
Alza le braccia, apri il tuo cuore
Rinnovamento nello Spirito
Vignetta della Domenica
07 04 2024
II Domenica di Pasqua - Domenica della Divina Misericordia - Anno B -
"Otto giorni dopo venne Gesù."
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Vangelo secondo Giovanni 20, 19 -31
Le porte chiuse di Gesù
Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà nella notte del tradimento.
Venne Gesù a porte chiuse.
La sua prima venuta sembra senza effetto, e otto giorni dopo tutto è come prima. Eppure lui è di nuovo lì, ad aprire le porte della paura nonostante i cuori inaffidabili: venne Gesù e stette in mezzo a loro.
Secoli dopo è ancora qui, irremovibile davanti alle mie porte chiuse.
La fede non è nata dal ricordo del Risorto. Il ricordo non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, e non da una rievocazione: “e stette in mezzo a loro”.
Il Vangelo parla di ferite che Gesù non nasconde, che a Tommaso quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo! Il costato, puoi entrarci con la mano!
Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre il dolore del venerdì santo. E invece no. Perché la Pasqua non è il superamento festoso della Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.
Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è risorto. L'amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite, indelebili, come l’amore. Dalle piaghe non sgorga più sangue ma luce, le ferite non sfigurano ma trasfigurano.
Allora capiamo che proprio attraverso i colpi duri della vita diventiamo capaci di aiutare altri attraversando le stesse tempeste, nella condivisione. La nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio seguire il Signore. La debolezza non è più un limite, perché nonostante i nostri dubbi si trasfigura in un’opportunità da cogliere.
Per tre volte il Vangelo parla di pace donata da Gesù. Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso alla fine si arrende, e neppure sappiamo se abbia toccato o meno il corpo del Risorto. Si arrende non al toccare, non ai suoi sensi, ma alla pace, passando dall'incredulità all'estasi, si arrende a questa parola che da otto giorni lo accompagna e che ora dilaga: Pace a voi!
La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone, come il Risorto; con piccoli segni umili, un brivido nell'anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. E ad essa ci consegniamo anche se appare come poca cosa, perché «se in noi non c'è pace non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci).
Non un augurio, ma una certezza: la pace è qui, è in voi, è iniziata. Cerca aiuto per scendere su ogni cuore stanco, sulle nostre guerre, su ogni storia di dubbi e sconfitte.
Scende come benedizione gioiosa, immeritata e felice che mi spinge a osare di più; così inizia la mia sequela, la mia porta che si spalanca al rischio di essere felice.
padre Ermes Ronchi
Ascolta il canto :
Rendete grazie
Rinnovamento nello Spirito
Regina del cielo
Francesco Buttazzo
lL canto di Tommaso
dal musical “Il Risorto” di Daniele Ricci
Pace sia, pace a voi
Gen Rosso - Gen Verde
Vignetta della Domenica